Milon de Crotone e il dono della consapevolezza

Francesco De Marco ci fa vedere come anche la grassa ignoranza e il cattivo gusto hanno la loro importanza

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    Devo pubblicamente e formalmente ringraziare l’amministrazione comunale e la mente illuminata che ha progettato e reso possibile l’ormai celeberrimo “ritorno di Milone” nella città di Crotone.

    In un primo momento il fuoco di sdegno e ribrezzo che ho dentro per atti insulsi e dolosi, come quello perpetrato al buon gusto e all’assennatezza umana, oltre che alle nostre povere tasche, m’aveva offuscato la vista.

    Riconosco d’aver sbagliato, non avevo capito.

    In effetti è bastato che mi rasserenassi. Ho fatto un passo indietro e i fumi della rabbia si sono diradati.

    Ho visto. Tutto è divenuto chiaro, leggibile.

    Un’eccezionale fotografia della realtà.

    Niente è stato frutto del caso. Bisognava semplicemente stare lì e osservare consapevolmente.

    Tutto è stato sapientemente strutturato da una coscienza collettiva superiore, per la quale, alcune vuote marionette inconsapevoli, dal sembiante umano, hanno operato, credendo di avere una qualsivoglia, possibile, iniziativa personale.

    Illusi!

    Guardate bene quell’innocente manufatto in resina e polveri di marmo, posto su una piazzola addobbata alla meno peggio, sul cui capo orribili occhi elettronici, sorretti da un deturpante asse di legno, vigilano il suo falso, alto pregio.

    Miseria!

    Guardate bene quel prodotto dell’acume umano! Esso non racconta la forza e il valore dell’eroe krotoniate, come i più vorrebbero e continuano a sognare, ebbri dei loro stessi desideri e interessi.

    Pomposi stolti!

    Ricordo ancora la storia fiorire dalle labbra della mia maestra, in un pomeriggio assolato di primavera all’Ernesto Codignola, una storia piena di meraviglia che annunciava un sacro avvertimento: moderazione!

    Milone, uomo dalla stupefacente forza fisica, straordinario guerriero e atleta invitto, era anche considerato dagli antichi un grande crapulone, naturalmente avvezzo agli eccessi.

    Smodato lo fu sempre, anche contro il magistero del sommo Pitagora, anche e soprattutto nell’ostentare se stesso, le sue peculiarità; come quando «prese sulle spalle alle Olimpiadi un toro di quattro tonnellate e camminò per uno stadio (circa 178 metri) e nello stesso giorno lo mangiò da solo (Milone Crotoniata in Olympiis taurum quadrimum humeris sustulit ac stadii spacio gestavit eumque die solus comedit.

    Nemico della temperanza, visse negli eccessi e morì a cagione della sua sregolatezza.

    Ormai in là negli anni, ma ancora borioso come un torello, volle provare a se stesso la forza d’un tempo, ormai perduta con la giovinezza, novello Narciso alla fonte, uomo che si specchia nella propria povertà d’animo.

    Inoltratosi in una selva trovò sulla sua strada un albero cavo o, forse, fu l’albero cavo ad imbattersi in lui, non è dato saperlo, ma mai niente accade per caso.

    L’albero cavo, però, non era una pianta qualsiasi bensì un millenario ulivo dalle foglie d’argento, sacro alla dea Athena, signora della sapienza e della temperanza.

    L’uomo, d’impeto, calò le grandi braccia, divenute ormai vecchie, grasse e goffe, nel cavo del possente tronco con la ferma volontà di volerlo spezzare in due.

    Lo sciocco vanaglorioso premeva, aggrediva e spingeva, in un incastro ferale. Il sudore scavava solchi impietosi sulle carni dello sprovveduto, le crepe sull’ulivo e le sue, sul volto, erano ormai una cosa sola.

    Nessuno sforzo portava beneficio al malcapitato, l’immenso vegetale, inesorabile, serrava la sua morsa, sempre più forte. Lo vincolava, lo incatenava, lo sottometteva, impietoso inglobava quegli arti canuti tra le sue fibre, il grande lottatore soccombeva alla stretta di un avversario immobile, impossibile, imbattibile.

    Il vincitore della battaglia del Traente, il mortale che si fregiava d’esser pari ad Eracle, il signore indiscusso dei Sacri Agoni Panellenici, irrimediabilmente immobilizzato cadeva notte tempo, sfinito dal tragico, immane sforzo, preda delle ingorde, dilanianti fauci di un branco di smagriti lupi. A nulla valse la sua tonante voce.

    Ecco! Tutto appare ora evidente.

    La copia, installata con tanto clamore e giubilo, non è soltanto la riproduzione dell’ultimo sussulto di un vecchio arrogante, ma la rappresentazione manifesta e intelligibile della nostra stessa città.

    Una città antica e gloriosa, divenuta vecchia e boriosa, pietrificata in un falso ricordo di sé, in balia di lupi voraci e senza scrupoli, capace solo di sfoghi di bocca.

    Questo il miglior saluto e il più indovinato lascito alla nostra comunità da parte dei nostri amministratori.

    La bomboniera, come in tutte le celebrazioni degne di essere ricordate, giunge alla fine tra baci, abbracci e strette di mano.

    Innanzi al Palamilone, al termine di un indecoroso e avvilente percorso durato lunghissimi lustri, che ha abbrutito un territorio intero, gettandolo alla mercé di promesse tradite e occasioni mancate che forse, probabilmente, mai più torneranno, ci ritroviamo gaudenti ad osannare il portento di plastica, copia di qualcosa di irraggiungibile, fatto per altri tempi, per altri uomini, per ben altri motivi.

    A noi, incapaci di progettare il futuro, di creare il nuovo, di ridare valore al nostro presente, non resta altro che accontentarci, come sempre, dei miseri resti dei lupi, sottomessi al nostro tracotante, ostinato orgoglio.

    In fondo, nella nostra Repubblica, per gente come noi «la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali».

    Ricordate concittadini… domenica si vota!

    Ma lunedì… tutto tornerà come prima.

    Francesco De Marco

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