Un’altra Calabria. Uscire dall’impasse è necessario e doveroso

Più informazioni su

Riceviamo e Pubblichiamo:

In questi giorni occupandomi, in maniera approfondita, del piano regionale dei trasporti della Regione Calabria, ormai risalente all’anno 2016, e, quindi, anche del porto e dell’aeroporto di Crotone, oltre che della strada statale 106 e della ferrovia jonica, ho fatto questa riflessione, del resto avulsa, seppure apparentemente, dalla lettura in corso. La Calabria, è una regione che si trova tra due mari, il Mar Tirreno e il Mar Jonio, ed è attraversata per l’intero territorio da tre catene montuose, il Pollino, la Sila e l’Aspromonte, che, più dei due mari, se si esclude l’epoca magno greca, hanno segnato la sua storia e hanno forgiato il nostro carattere determinandone usi e costumi. Faccio quest’affermazione preliminare per dare un senso e un significato a quanti, tra i quali il sottoscritto, auspicano, e desidererebbero, una diversa e un’altra narrazione della propria terra. Non artatamente persuasiva o artificiosamente dissuasiva, meglio ancora, un racconto condiviso, e a più voci, della nostra storia millenaria, da dar conto e ragione degli eventi che hanno determinato le nostre attuali condizioni; contrassegnate da degrado, da miseria e da violenza, e che soprattutto ci aiutasse ad immaginare e ri-pensare una Calabria diversa. Una Calabria nuova. Un’altra Calabria. Per i nostri antenati erano valori: il silenzio, la sobrietà, la parola data, la lentezza, il rispetto degli altri e che oggi, pur in un’epoca dominata dai disvalori, devono tornare ad essere centrali nelle nostre vite, senza lasciarci ingannare da modelli esistenziali che stanno distruggendo l’umano che è in noi. Forse è bastato questo senso di precarietà dato dall’epidemia che ci ha fatto quasi arrestare e ritornare in noi. Ebbene: non possiamo rinunciare alla nostra storia! Senza rinnegare o, al contrario, magnificare quello che noi siamo, nel bene e nel male. Ma noi, ora, abbiamo bisogno di un riscatto, come chi ha visto la malattia o la morte e vuole poi innalzarsi nella vita piena. Non si può tollerare “un paradiso abitato da diavoli “come amava dire Benedetto Croce riferendosi a Napoli e ai napoletani. Per questo motivo, nell’iniziare questo mio ragionamento, non potrò non avere sullo sfondo dei mie pensieri oltre la nostra particolare posizione geografica e la nostra specifica conformazione geomorfologica anche il mito delle Calabrie, nel senso di una serie di racconti simbolici, come ci ha insegnato Karoly Kerenyi, che è stato creato e che si alimenta come un fuoco che arde perennemente. Posizione geografica e conformazione geomorfologica che, da sole, più del mito, possono spiegare, se non totalmente, almeno in parte, le ragioni storiche che, nel tempo, hanno portato la nostra terra ad essere, rispetto alla altre regioni meridionali, ancor più arretrata, più abbandonata ed isolata. E che di fatto hanno creato le condizioni per un Sud a due velocità, relegando la nostra regione in uno stato di minorità. E a farne una regione dove regna sovrano il familismo amorale, sfociante molte volte nel familismo immorale, e una libertà fragile. Perennemente in balia di faide, non riconducibili solo alla ‘ndrangheta, tra gruppi di potere appartenenti ad una società civile arcaica ed arretrata, chiusa e ripiegata su se stessa. Un perpetua e continua lotta tra eterni rivali. Gli uni contro gli altri armati. Con municipalità e territori impegnati e ossessionati dal pensiero della distruzione più che della costruzione. E che alla fine, per caso e per necessità, hanno portato ad avere, pur in questo conflitto perenne all’interno delle Calabrie due territori separati, non solo da monti e da colline che rendevano e rendono difficili se non impossibili le interazioni umane e sociali. Distinti per la difesa strenua di interessi di piccolo cabotaggio, solitamente e il più della volte, in mano a potentati economici ed elettorali sempre immobili e uguali a se stessi.

Faccio queste considerazioni, e lo ribadisco con forza, da cittadino calabrese prima ancora che da cittadino crotonese senza nessun revanscismo o territorialismo, senza polemica campanilistica. Convinto come sono che la Calabria deve trovare al suo interno, dentro se stessa, dentro la sua gente, le motivazioni e quindi le ragioni profonde per uscire da questa condizione che ci relega in una posizione di supina subalternità e che ha insinuato il dubbio, in molti osservatori, molte volte anche in noi stessi, che la nostra regione sia una regione persa. Una regione a preminente ed assoluta rilevanza criminale. Che è, indubbiamente, una parte di verità, altrimenti non si spigherebbero i morti ammazzati, le faide, le estorsioni, le prepotenze, la chiusura strenua e netta al cambiamento e al rinnovamento; ma non la verità, non è assolutamente la verità, certamente è una verità più comoda e più facile da raccontare. Utile a chi della Calabria deve e vuole dare un immagine stereotipata e di facile impatto mediatico. Bella da raccontare come se fosse una fiaba. Una leggenda. La leggenda di tre cavalieri dell’epoca aragonese, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, difensori dell’onore di una sorella oltraggiata e che agivano seguendo un modello comportamentale ed avevano una loro legge morale da cui nacque la ‘ndrangheta. Che, sulla scia di questi meta racconti, assume i caratteri e le sembianze di un Moloch. Forte. Invincibile. E che diventa, nell’immaginario collettivo, la mafia più potente e ricca del mondo, garante, in molti casi, anche dei difetti e delle manchevolezze delle altre mafie. Prima tra i primi. Una mafia, la ‘ndrangheta, nata, cresciuta e radicata, tra l’altro, nella regione più povera dell’intero continente europeo. La Calabria. Ultima tra gli ultimi. Senza considerare invece che la ‘ndrangheta, come amava ripetere Giovanni Falcone, è “…un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine“. E la ‘ndrangheta, anche in Calabria, avrà una fine. Non nascondo che nel riportare questo pensiero, straordinariamente vero e reale, lo scrivo con la speranza che la fine della ‘ndrangheta, che prima o poi avverrà, non coincida e, soprattutto, non sia preceduta dalla fine della Calabria. Ed allora se è vero, com’è vero, che le linee guida del Recovey Fund prevedono che le risorse siano riservate, per la gran parte, alle regioni europee in maggiore ritardo rispetto alle infrastrutturazioni primarie e secondarie, privilegiando, di fatto, il Sud d’Italia, è anche vero che all’interno della nostra regione l’attuale governo regionale deve a sua volta prevedere che, nelle ripartizione delle risorse, una parte rilevante deve essere impegnata nella parte jonica calabrese, per compensazione e a ristoro dei ritardi  accumulatisi  nel tempo. Sapendo che non cresce l’Italia e non cresce l’Europa se non cresce il Sud, ma anche, e soprattutto, nella consapevolezza che non cresce la Calabria se non cresce la Calabria Jonica. Ecco perchè quella che, di primo acchito, poteva e può sembrare una rivendicazione campanilistica, la richiesta di una maggiore attenzione e considerazione per la parte jonica della nostra regione, ha invece, un valore che travalica il particolare, al contrario, sollecita, tocca e riguarda il generale. Non tanto il campanile ma i campanili. Non un area jonica contrapposta a quella tirrenica ma la Calabria. E i calabresi. La nostra terra. E la nostra gente. Per questo, e per tante ragioni ancora, ritengo che Crotone e la sua provincia devono diventare ed essere protagonisti di un cambiamento radicale, di un inversione di tendenza e di un cambio di marcia che non può più aspettare. Cominciando con il considerare la Calabria una sola ed unica grande polis. E rinunciando a quello strabismo consolidatosi nel tempo, che non ha consentito a tutti i calabresi, di alzare il loro sguardo, fiero e orgoglioso, al di là degli steccati e di guardare, senza timore alcuno e senza l’appesantimento di inutili e dannosi interessi clientelari, sia alla parte destra che alla parte sinistra della nostra regione, sia alla Calabria tirrenica che alla Calabria jonica. Da Crotone, e dalla sua provincia, assieme ai comuni della fascia jonica calabrese, dagli ultimi tra gli ultimi, insomma, deve partire questa rivoluzione, in cui alberga, per dirla con Emanuele Severino, la follia. La gioia. E la libertà.

Una rivoluzione copernicana, per alcuni aspetti, che ha nel pensiero di Gioacchino da Fiore, di Campanella e di Telesio il suo fondamento e le sue basi etiche ed ideali. La stessa che per quanto ci riguarda deve passare dalla fuoriuscita dei porti di Corigliano/Rossano e di Crotone dall’Autorità Portuale di Gioia Tauro per programmare l’adesione all’Autorità di Sistema Portuale dello Jonio con sede a Taranto  e  deve passare dalla fuoriuscita dalla Società Aeroportuale Calabrese per programmare e pianificare assieme al comune di  Corigliano/Rossano e al comune di Matera la creazione di una Società Aeroportuale dello Jonio con la previsione di una metropolitana di superficie, o che dir si voglia,  che , per il tramite della rete ferroviaria, consenta di arrivare da Reggio a Taranto in maniera semplice e veloce , individuando , nel contempo, un tracciato, una Via delle Città Magnogreche. E poi una volta realizzate queste precondizioni passare all’ideazione a alla creazione di una macro-area jonica comprendente tutte le province che si affacciano sul Mar Jonio per una straordinaria operazione di marketing territoriale incentrata su Matera, capitale europea della cultura, sulle città magnogreche e sulle aree archeologiche all’aperto presenti in quei territori al fine di candidarle a patrimonio dell’Unesco. A questo bisogna lavorare. E a questo io intendo lavorare, con tutte le mie forze. Senza risparmio di tempo. E di energie. Sapendo che, come dice papa Francesco, “oggi non viviamo un’​epoca di cambiamenti, ma un cambiamento di epoca”.

Giovanni Lentini

Più informazioni su