Retrotopia

Cosa temiamo realmente?

Credere che l’età dell’oro sii trovi dietro di noi e non davanti a noi. “Retrotopia” è uno dei neologismi che la Treccani inserisce nel 2018 (link), con la definizione di “Utopia che idealizza il passato, considerato più rassicurante”. La parola, che racchiude un pensiero molto più complesso e sotto certi aspetti preoccupante, è stata ideata e spiegata dal sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman (Poznań, 19 novembre 1925 – Leeds, 9 gennaio 2017), che intitolo proprio così un suo testo nel 2017. In una parola, Bauman, è riuscito a racchiudere un sentimento, uno stato d’animo, un modo di pensare, comune a tantissime persone.

L’attitudine delle donne e degli uomini di oggi a cercare nel passato il senso della vita, visto che anche «la speranza è stata sequestrata», viene interpretata da Bauman come una forte domanda di senso che deve essere assolutamente ascoltata.
(Vincenzo Paglia, Avvenire, 8 ottobre 2017, p. 24, Agorà)

Trovandosi all’esatto opposto dell’utopia, che pone la speranza di un mondo perfetto nel futuro, quindi in un arco temporale che ancora deve compiersi, la retrotopia annienta quella speranza, sottolineando che l’unica cosa buona la si possa trovare solo alle nostre spalle. Il risultato è il guardare il passato per rassicurarci circa un futuro incerto e fonte di preoccupazione. Non solo il futuro viene visto come qualcosa di fosco e negativo, ma anche l’oggi viene vissuto con diffidenza e tensione, creando così un nostalgico e miticizzato passato, che induce al pensiero che questo presente sia solo da buttare. Prendere questo topos e metterlo dietro, è l’atteggiamento di chi crede che il meglio della vita risieda esclusivamente nel passato e per questo per poter ritornare ad avere il meglio, ci si trovi obbligati a tornare indietro. Questo diviene quasi un modo per trasferire il pensiero dell’io non capisco a questo è sbagliato.
Un esempio banale ma immediato lo possiamo prendere in prestito dalla musica.
La trap è un sottogenere musicale molto vicino ai giovanissimi, che non viene particolarmente apprezzata dalla stragrande maggioranza di chi è nato prima gli anni ’80 (magari qualcuno si). Immaginando una conversazione magari tra un quarantenne ed un diciasettenne possiamo facilmente immaginare che il primo ad un certo punto utilizzerà le parole: “e ma ai miei tempi…” con la quale si pone una quasi definitiva pietra tombale sulla conversazione. Bene in maniera semplicistica anche in questo caso si può parlare di retrotopia, nella misura in cui rispetto ai gusti musicali con i quali siamo stati educati, non reputiamo buono qualcosa di nuovo e ci rifugiamo in un “passato musicale” fatto di armonie a noi più conosciute.
Il meccanismo in realtà è molto più pericoloso di quanto banalmente evidenziato nell’esempio. Porre alle nostre spalle una vagheggiata età dell’oro che probabilmente non tornerà più, significa soprattutto privare del futuro gli altri, non riuscire ad immaginare altre vite diverse da quelle che abbiamo, perché la felicità l’abbiamo sperimentata solamente quando “eravamo bambini” (forse). Reagire alla paura del domani con la nostalgia di quello che è stato ieri. Questo tipo di pensiero non solo danneggia chi ne fa uso, ma danneggia anche chi ascolta.

Questa «retrotopia» cela in realtà una disperata domanda di futuro, di utopia appunto: di una società che sappia riscoprire la prossimità e tessere relazioni solidali fraterne.
(Vincenzo Paglia, Avvenire, 8 ottobre 2017, p. 24, Agorà)

Il futuro non esiste ancora perché è tutto da costruire da parte nostra, giorno dopo giorno, persona per persona, cercando di recuperare quella fiducia in ciò che facciamo, che negli ultimi anni è venuta decisamente meno a causa di scelte politiche, sociali ma anche individuali che ci hanno allontanato dall’altro. L’ignoto, il nuovo da costruire, il lavoro da inventare sono una sfida non qualcosa da temere.
(Elle)