Scostare la benda dell’indifferenza

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    La laurea in comunicazione sociale è diretta conseguenza della passione di sempre per materie che vanno da filosofia della comunicazione all’epistemologia.

    E’ per questa ragione che Gabriella Cantafio collabora da tempo, oltre che per Crotoneinforma.it, con Vanity Fair, Donneuropa, Il Giornale sezione OFF, Kairos e per tanti progetti di editing e comunicazione per scuole, onlus ed associazioni no-profit.

    In questa rubrica continuerà a fare ciò che già fa egregiamente, da circa due anni per tutti noi: cercare e trovare luci nella catena contorta e maltrattata che avvolge il nostro territorio.

     

    Per tre anni, ogni mattina, mi svegliai e mi affacciai sullo Stretto intravedendo i colori della mia terra natia, inebriata dall’inconfondibile profumo dei fichi d’india siciliani. Dal balcone scorgevo il belvedere di Cristo Re, passeggiando mi ritrovavo affianco il Duomo di Messina. Spesso, fu proprio il canto del gallo del campanile della Cattedrale a distogliermi dai pensieri sulla sessione di esami da completare in tempo o addirittura in anticipo. Si, assorta tra studio e serate universitarie, correvo sempre, non accorgendomi della bellezza che mi circondava.

    Soltanto quando stavo per dare l’addio, che ho sempre preferito definire un arrivederci, alla città che mi adottò per tre intensi anni, un pomeriggio di fine estate, fui rapita da una struttura d’acciaio che svettava imponente nel cielo ammiccando alla gemella altrettanto maestosa posta sulla sponda calabrese. Era il Pilone di Torre Faro che placa le acque dello Stretto, un tempo agitate da Scilla e Cariddi. Lo contemplai, e gli scattai velocemente una foto. Dopo pochi mesi, ripresi la mia corsa affannosa che, stavolta, mi portò nella capitale. Qui ad aspettarmi ci fu il più ricco patrimonio storico-artistico italiano. A fare da sfondo ad appunti ed esami, divenuti poi colloqui ed impegni di lavoro, c’era la Fontana di Trevi, il Lungotevere, la Basilica di San Pietro (e tante tante altre opere d’arte).

    Ma io camminavo distrattamente, fissavo l’orologio calcolando la fermata del bus a cui sarei dovuta scendere. O addirittura mi chiudevo nella metro. E mi perdevo questo spettacolo che ho imparato ad apprezzare molto tempo dopo. Quando ormai il fato mi aveva riportato nella mia terra per scoprire che per lunghi anni non mi ero mai soffermata abbastanza ad osservare la magnificenza dei luoghi.

    Ma non fu troppo tardi: non ricordo bene il giorno ma all’improvviso scostai la benda dell’indifferenza e, come se fosse la prima volta, scorsi il mare cristallino, i vicoli, le distese fiorite della mia città. Come per incanto, cambiai la percezione di me stessa, della mia terra.

    E iniziai ad immortalarla credendo che, forse, uno scatto del suo fascino genuino potesse aiutarla a riscattarsi dai soprusi subiti, a uscir fuori dal limbo in cui da anni è sospesa tra timori e flebili speranze, e mostrarsi sfolgorante come ai tempi in cui dominava la Magna Graecia.

    Fu come girare l’angolo volgendo le spalle alle nefandezze, al brusio dei passanti. E improvvisamente non sentire più il ticchettio degli orologi che segnano il tempo che scorre inesorabilmente né il fragore delle macchine. Io e i vicoli della mia città ci ritrovammo da soli. Cullati dall’eco delle tradizioni, semplicemente.

    Gabriella Cantafio

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