Melito non è un Porto Salvo ma un paese da salvare dall’omertà

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    All’estremità dello Stivale c’è un paesino di circa diecimila anime, adagiato su una collinetta dalla quale si scorge lo Stretto di Messina, l’Etna, e la bellezza indomita della natura. Nell’aria volteggia il profumo di bergamotto, fresco e frizzante come la gente di Calabria che cerca di trarre beneficio dal prezioso patrimonio botanico. Si, perché l’agrume, che dona l’essenza a noti profumi e cosmetici, fiorisce esclusivamente sulla costiera reggina. Il succo dell’ “oro verde”, dalle proprietà benefiche, però ha un sapore aspro e pungente. Come la notizia che ha sconvolto l’Italia intera, ma non la maggior parte degli abitanti del paesino che delimita il territorio calabrese.

    Una tredicenne, ora sedicenne, per tre lunghi anni è stata vittima della furia cieca di ben nove uomini, piccoli perché poco più che ventenni ma soprattutto piccoli d’animo, di dignità.

    Mentre i genitori, ‘ndranghetisti ed esponenti delle forze dell’ordine, erano avversari nell’ardua battaglia contro il malaffare che corrode un territorio bramoso di riscatto, i figli si ritrovavano “compari” nell’ostentare la propria virilità possente sollazzandosi con il corpo di un’indifesa, soggiogata prima dal sogno di un ingenuo amore poi dalla paura delle minacce.

    Una violenza subita incessantemente nel silenzio assordante della giovanissima vittima, della sua famiglia, dei suoi professori, che assistevano quotidianamente alle sue crisi di pianto o ai suoi tagli nascosti sotto lunghe maglie anche nelle giornate più roventi. Di una terra incapace di alzare la voce, tirare un calcio in faccia all’omertà, e ribellarsi.

    In lontananza, in seguito all’arresto degli esseri immondi che ben presto torneranno in libertà a caccia di vittime sacrificali, si sono intraviste flebili fiammelle brancolare nel buio di un paese inerte. Ma erano poche, troppo poche. E sono state spente violentemente dall’ignoranza di chi ha affermato «per come si vestono, certe ragazze se la vanno a cercare! Ci dispiace per la famiglia, ma non doveva mettersi in quella situazione. Sapevamo che era una ragazza un po’ movimentata. Una che non sa stare al posto suo». Per un attimo sorge il dubbio di trovarsi in qualche angolo sperduto di quel Medio Oriente che annienta la dignità delle donne e ne nasconde le fattezze con burqa e burkini. Ma invece siamo in Italia, in quel Sud che tenta di rinascere con cultura e turismo e invece viene fagocitato dalla mafia.

    Il profumo di bergamotto improvvisamente scompare, nell’aria riecheggia il ticchettio dei passi di chi fugge nelle proprie abitazioni perché “non vede, non sente e non parla”. Permane l’odore pregnante della morte sociale. E i morsi indelebili di un branco che ha sbrindellato la dignità di una fanciulla. Che, troppo presto, ha scoperto che quel “Porto Salvo”  nel nome del suo paese non indica la baia in cui vengono accolti sogni e speranze degli abitanti. Ma forse rammenta l’impellenza di mollare gli ormeggi dell’arretratezza e salpare verso una crescita civile. Pronti a denunciare e non lasciarsi pestare dall’aguzzo tacco della criminalità.

    Gabriella Cantafio

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